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Quaderno on line di andata e ritorno…a CuneoVualà 2020 (trentunesima puntata – Giuseppe Fabris)

[rubrica a cura di Ivana Mulatero, ideatrice e curatrice di CuneoVualà]

Non è esposto a CuneoVualà 2020, la rassegna dedicata ai carnets de voyage, giunta all’ottava edizione e ospitata alla sala Ipogea della Fondazione Peano fino al 15 novembre prossimo, ma in un certo modo si collega ad essa. Si tratta della personale di Giuseppe Fabris, “Lockdown” in corso alla Galleria Depardieu di Nizza con l’introduzione-conversazione di Nicola Davide Angerame. Giuseppe Fabris è una figura di artista multiforme che abbraccia più discipline, dalla musica al teatro, dai video alla pittura. Ma il nucleo primigenio di sinapsi in continua connessione è il di-segno. Un segno che si muove inarrestabile su piccoli fogli bianchi, traccia nera di un pennarello a punta fine.

Leonardo, come ricorda Vasari, “Piacevagli tanto quando egli vedeva certe teste bizzarre, o con barbe o con capegli degli uomini naturali, che avrebbe seguitato uno che gli fussi piaciuto un giorno intero: e se lo metteva talmente nella idea, che poi arrivato a casa lo disegnava come se l’avesse avuto presente”. Da allora, ma forse ancor da prima, la memoria visiva non ha mai cessato di offrire agli artisti un giacimento di spunti, idee, lacerti di cose e frammenti di storie con soggetti appena abbozzati, che diventano nelle migliaia di pagine dei taccuini leonardiani la restituzione evidente di un perenne colloquio interiore. Ecco, il disegno, tra le ossature portanti della concretezza fabbrile di un carnet viaggiato e disegnato, ha questa importante funzione, di sostenere un atto di conoscenza verso il mondo e verso se stessi.

Fabris disegna per interrogare il visibile ed esaminare la struttura delle apparenze. Ma lasciandoselo alle spalle, il visibile. Sia che si tratti di “teatrini” surreali di saviniana memoria o la liricità astratta di una grammatica del segno di lontana origine kleeiana, non conta più il modello, la presunta oggettività reale, ciò che appare è come una musicale jam session di filamenti. Suoni fonetici, ma visivi, intrecciati in svariati modi. Non stupirebbe, se la loro origine fosse in quei momenti in cui l’autore compone o pensa la musica, e il bianco del foglio uno spazio vuoto insonorizzato dove ascoltare le risonanze interiori.

Altre due annotazioni a margine della mostra di Fabris alla galleria Depardieu. La costante dell’intero corpus di disegni è la presenza di un omino che guarda l’ammasso di segni. E’ lui il filo conduttore di una storia senza parole che si dipana da foglio in foglio, che assiste da spettatore questa trasmutazione quasi magica, imprevista, di un caos scarabocchiante che si fa cosmo, ordito compositivamente sempre al centro del foglio, a volte con un horror vacui a colmare tutto il perimetro, o al contrario, con un intento più “illustrativo” che irradia da una pseudo impronta sulla carta, come quella delle dita.

Si è detto che non ci sono parole in questi disegni. Ma a ben guardare, in alcune opere si coglie pienamente il punto di passaggio fra la grafia e l’immagine in un intreccio di grande suggestione. L’opera di Fabris lambisce quel percorso artistico che si può definire di “poesia visiva” in quanto accoglie l’accostamento della dimensione iconica con quella più propriamente linguistica rappresentata da una grafia caotica e informe. Quasi una scrittura: il disegno realizzato, giorno dopo giorno, porta indelebile la derivazione dalla parola.

 

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